Interviste
  
   
   
Aleph
In dialogo con Paolo Cavinato
di Paola Artoni
  
(Testo di catalogo della mostra Aleph, Museo d'Arte Moderna, Gazoldo degli Ippoliti)
Agosto-Settembre 2009
  
 
  
Non ti nascondo l’emozione di raccogliere in questa sede l’esito del lavoro di dieci anni, e forse anche più. Prima di soffermarci sui capitoli dedicati alle ricerche più recenti vorrei ripercorrere insieme le tappe di queste tue architetture dell’immaginario. Mi piace pensare che ci sia un legame con la ricorrenza del tema dei muri, incrostati e stratificati, soggetto dei tuoi primi scatti fotografici e poi ricreati nelle tue stanze…
Ho iniziato da un’importante crisi che ho maturato sulla pittura. La domanda principale di quando si è giovani è di come liberarsi di certi schemi e di come scrollarsi di dosso opinioni altrui. Penso che la via più giusta sia quella di provare e sbagliare. Anni in cui dipingevo molto ma non mi bastava, semplicemente non sentivo la mia voce. Se penso ad artisti come Malevic, Mondrian, Fontana, Burri, Pollock e Bacon, credo che con loro si sia costruita e decostruita la tela fino all’azzeramento. Dalla meditazione che oltrepassa il supporto, allo squarciamento del gesto che diviene performance, lo strumento “pittura” è stato indagato a 360°, quindi che rimane da fare a noi artisti del 2000? Questo è stato motivo d’inizio di un percorso che mi ha portato a rompere la tela, nel vero senso del termine, gettarla ed uscire a camminare indagando lo spazio della vita. Gli spazi abbandonati sono stati di mio grande interesse: case, capannoni industriali, cascine, stazioni, ex ospedali, ex alberghi, stanze e spazi in disuso. Oggetti e materiali abbandonati mi davano nuove visioni, insieme ad un’idea del tempo statico, a sé stante, staccato dalla quotidianità. In me maturava un’idea dell’attesa, della pausa e della staticità in una dimensione dell’assenza, ma insieme un’idea della morte e della vita, un certo senso di melancolia del tempo. I primi scatti fotografici (tra il 1995 e il 1999) diventarono dei veri studi dello spazio dove iniziai a sistemare e ordinare gli oggetti con una certa reciprocità e rapporto spaziale, utilizzando poi la luce naturale come energia capace d’infondere un senso di sospensione nelle cose. Così, sebbene avessi abbandonato ogni tipo di strumento pittorico, istintivamente davo ordine e proporzione, luce e ombra, canoni, armonie, equilibri. Spazi abbandonati, fuori dal tempo ma con un nuovo tempo, donato da quel nuovo ordine stabilito alle cose. Il muro è poi una cosa che per un periodo ha sostituito quell’idea di pittura che non sapevo risolvere. Il muro è la stratificazione storica del nostro paese, difficile da alleggerire, da sostituire, perché già demarcata tracciata dagli avi. Ancora oggi il muro appare nel mio lavoro sotto forma di soglia o di specchio. È lo spazio dell’esperienza umana, compiuta giorno dopo giorno, oltrepassabile o no.
 
Sono affascinanti queste stratificazioni, una “cifra” che ti porti ancora oggi dentro come una connotazione forte che ti identifica. Forse anche la scelta dell’utilizzo di materiali di recupero è da leggere in questa direzione… sei d’accordo? Oppure si tratta del fascino della materia o del desiderio di trovare una messa in scena di simboli e situazioni del reale?
Inizialmente, i materiali che utilizzavo, provenivano proprio dagli spazi visitati. Per cui le prime Scatole e successivamente i primi Libri (1996/1999) erano costruiti con carte di recupero in cui descrivevo situazioni e in cui raccoglievo disegni, fotografie dei luoghi. Quindi si trattava di un vero e proprio lavoro topografico ( o topologico...). Queste case abbandonate, in realtà assumevano la dimensione di spazi vivi, ricordo ancora la sensazione di trovarmi di fronte a persone che in realtà non c’erano ma esistevano ancora le loro tracce nelle cose abbandonate. Ricordo un certo senso di paura o di timore nell’oltrepassare la soglia ed entrare per curiosare. La sensazione di paura nell’idea di violare un certo spazio intimo. Da qui ho iniziato a lavorare con materiali poveri e umili, quali le carte o le cere. Ad esempio disegnavo con graffite su carta, alcuni luoghi e li immergevo nella cera fusa, come fossero immagini impressionate nella memoria come se stessero per riaffiorare o per svanire. Custodite poi in scatole appena più grandi fatte di frammenti di carte. L’idea anche qui della fragilità o labilità della memoria, insieme ad un’idea del tempo, del movimento, del fatto che nulla è in realtà statico, ma tutto continua come un flusso costante e ininterrotto. Da queste riflessioni nascono i primi oggetti di case, intesi come sculture viventi. Ricordo in un giorno piovoso d’autunno. Mi trovavo in una grande casa nella campagna emiliana, all’interno di una stanza, spoglia e ammuffita con tappezzeria gialla scrostata, pavimento in mattonelle fangoso ricoperto di pagine e pagine di quaderni di chimica, e dal soffitto di travi legnose marciscenti gocciolavano gocce che, riversandosi sul pavimento, imbevevano le pagine di formule chimiche. In quelle pagine vi leggevo la sostanza franosa della casa. Sono immagini forti che colpiscono ma cui occorre dare una propria lettura. Nelle mie prime sculture viventi come in Casa o in Gocce volevo trasmettere il senso di mutevolezza dell’organismo, di precarietà e di passaggio. Come se in fondo, anche la stanza che viviamo è un organismo vivente che ci abbraccia, con un tempo ed un proprio ciclo vitale. In realtà non penso ad una simbologia stretta ma ad una flessione continua. Si tratta poi di spazi sinestesici in cui i sensi vengono sollecitati e mescolati o amplificati. Ad esempio, all’epoca studiavo molto Kafka, e ne La metamorfosi vi leggevo questa intelligente intuizione di una vista sostituita dall’udito o dal tatto. Si tratta quindi di uno sguardo che si completa, si amplifica di altro. Perde il consueto punto di vista per appropriarsi di una nuova visione o di una nuova prospettiva.
 
 
Se dovessimo sintetizzare una storia della tua personale “visione” non potremmo dimenticare l’esperienza dei video… Penso alla serie dei cortometraggi Oerte e alla tua attività scenografica in teatro…
Se parliamo di “punti di vista”, nei due linguaggi, l’autore è capace di deciderne il momento e la posizione dell’osservazione. C’è il rischio d’esser un po’ dittatori dello sguardo. Devo dire che il video è un mezzo interessante in quanto molto vicino all’aspetto musicale, basti pensare alla presenza del ritmo e del tempo nel montaggio. Non è quindi soltanto una condizione di posizionare il punto di vista ma anche di intensificarne o amplificarne il momento. Così come nel teatro, luogo eccellente d’incontro dei linguaggi espressivi e luogo d’incontro delle diversità, i punti di vista sono sempre messi in discussione prima e poi decisi affinché sottostiano a ciò che si vuole raccontare e soprattutto, in che modo si voglia condurre lo spettatore.
 
Parli di nuova visione, nuova prospettiva. Mi sembra che già allora fosse in embrione il concetto di anamorfosi, il sottile gioco tra realtà e illusione, tra rigore matematico e vertigine di emozioni. Questo, a mio parere, può essere il trait d’union con il lavoro che hai presentato nella Biennale d’Arte Giovane Postumia del 2006 Camerae Pictae. Con Antonella Gandini ti avevamo invitato a interpretare l’attualità di Mantegna e tu avevi sorpreso noi curatrici prima e il pubblico poi con una grande camera frammentata, anamorfica appunto…
Amo molto Piero della Francesca e con lui scopro l’importanza politica nel presentare in primo piano il ritratto dominante di Federico II da Montefeltro, davanti alle terre di Urbino. Così come quando Andrea Mantegna ritrae il Cristo morto, in una posizione inusuale, è Dio che si fa uomo, accano a umili persone. Con l’invenzione della prospettiva non si da soltanto forma e struttura ad un mondo virtuale o specchio del reale ma si costruisce un mondo decisamente gerarchico, Brunelleschi dà il via a una rivoluzione pari alla scoperta del movimento nelle arti di fine Ottocento. In genere ho sempre cercato di condurre lo spettatore ad osservare e sperimentarsi una nuova visione dinamica con l’opera. CamerAptica è un passo decisivo nella mia produzione. Apre nuovi interrogativi sul significato concettuale degli oggetti che ci accompagnano nella quotidianità e più largamente pone dei dubbi sul nostro punto di vista nei confronti del mondo. Quindi è vero ciò che vediamo o una nuova posizione potrebbe aprirci e svelarci nuovi significati? Così come sono, questi oggetti, visti dal punto stabilito della normale quotidianità, sono una sedia, un tavolo, un letto… ma, distolto l’occhio, scostato anche di poco, essi appaiono con altri aspetti ben diversi, mostrandone il vuoto.
  
Ecco altre parole-chiave del tuo lavoro: il vuoto e il frammento. In occasione di CamerAptica hai dato vita, insieme al compositore Stefano Trevisi, a questo concetto di scomposizione e ricomposizione… Anche il terzo capitolo di queste installazioni, Soglia, era un viaggio alla scoperta di parole, suoni e immagini scomposte, alla ricerca di un senso unitario forse irraggiungibile…
Sì, tutto il progetto Spazio Visivo parte da un’idea di laboratorio dove poter convogliare nuove idee, linguaggi e strumenti di altre persone provenienti da campi diversi. Soglia è un progetto fisicamente fruibile dallo spettatore. Mi rendo conto che egli diventa sempre più partecipe nel mio lavoro. Concettualmente Soglia è una sorta di limbo, di limine direi, spazio di demarcazione e/o unione, tra finito e infinito. L’uomo lascia tutto ciò che di materico possiede (persino egli stesso) per sciogliersi in questo divenire continuo, vuoto. Credo che Soglia sia il frutto ultimo di una lunga riflessione. E da qui quasi a ritornare a ritroso potrei benissimo ricollegarmi alla pittura. Su questa superficie di passaggio è come se stessi ripensando il supporto pittorico, come oltrepassare la tela.
  
Un desiderio di ricongiungimento con l’infinito che in Annunciazione (installazione che è stata premiata nell’ambito del Premio per la giovane scultura indetto dalla Fondazione Pomodoro di Milano) assume un’altra connotazione, direi spirituale.
Giocando sempre sulla prospettiva anamorfica, Annunciazione riprende il filo tracciato da Camera Aptica affrontando però il tema del Sacro, inteso come incontro con l’altro, incontro con un’idea dell’Assoluto. Ma qui rispetto a CamerAptica lo spettatore diventa parte integrante dell’opera. Vi sono due prospettive da cui lo spettatore può osservare: i due punti di vista distinti dell’Angelo (il corpo ultraterreno, aereo, l’altro) e quello di Maria Vergine (corpo terreno, concreto, umano). Sono due punti di vista opposti e diversi e di fatti le due visioni che ne conseguono risultano ben differenti. Nella costruzione spaziale ho voluto qui mescolare tre componenti culturali ben distinte: quella giapponese nell’architettura e nel rapporto con la natura, quella delle architetture e grafiche islamiche, nella rappresentazione dell’assoluto, la cultura occidentale nella rappresentazione prospettica rinascimentale. Nell’architettura, nella pittura e nella cultura zen giapponese la natura è in piena armonia con la geometria della spazialità dell’architettura. L’interno si fa esterno e viceversa, l’uso dei materiali naturali, la geometria stilizzata delle forme completata dalle forme naturali dei sassi, delle piante, della natura in sé. Finito materico dell’architettura, infinito della natura. Terrestre e celeste in armonia. Nell’architettura Islamica, la rappresentazione divina è piena astrazione. Le moschee sono architetture costruite su basi numeriche e astratte, geometriche ripetizioni costanti ipnotiche, meditazione, staccarsi da sé, preghiera. La rappresentazione divina è un ”mantra” geometrico infinitesimale, di particelle geometriche che insieme costruiscono il tutto. Iconoclastia, geometria, decorazione, astrazione totale. La prospettiva Rinascimentale, come abbiamo detto, è una grammatica di base per rappresentare un mondo simbolico. Anticipa la fotografia, è regola matematica. È finestra entro cui l’uomo raffigurerà storie per divulgazione religiosa e politica. A me interessa particolarmente la visione dell’assoluto nelle tre culture, anche con i contrasti e i dubbi che ne conseguono. In definitiva, l’angelo sarà visto da Maria in una visione cosmica, geometrica, non rappresentabile fisicamente, ma solo idealmente il cui punto di vista appare come un triangolo dorato dinamico nella moltitudine. Come nel Faust di Rembrandt o nell’Aleph di Borges, è un disco, un punto dagli infiniti orizzonti: “ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”.