Interviste
 
  
   
Sull'uso della prospettiva e il ruolo della vacuità:
in conversazione con Paolo Cavinato
di Giulia Gelmini
 
Droste Effect Magazine
 
25 Novembre 2017
   
   
   

Utilizzando diverse pratiche artistiche, Paolo Cavinato crea spazi multisensoriali, dove immagini della realtà, mentali e proiezioni emozionali si uniscono. La sua ricerca inizia dallo spazio fisico per arrivare all’assoluto; un percorso filosofico seguito con ordine e rigore, dove l’osservatore è coinvolto sin dall’inizio. Questo si traduce in spazi che possono essere esperiti e attraversati, dove i sensi sono sollecitati e uniti; mentre in altre occasione, essi rappresentano un eterno limbo tra finito e infinito. Lo spazio diventa flusso continuo, un Vuoto. Iniziando da qualcosa di instabile, sospeso, temporaneo, Paolo Cavinato raggiunge la rappresentazione dell’assoluto con un mantra geometrico infinitesimale, una ripetizione costante e simboli ipnotici che insieme formano il Tutto.

 

Guardo le tue opere e mi sento completamente persa. Non so esattamente dove guardare e dove trovare un gancio per fermarmi e trovare il mio posto nel tuo cosmo. Le tue strutture lineari chiedono all’osservatore di muoversi, di esplorarle, di risolvere l'enigma nascosto dietro al loro vuoto, ma a quanto pare non c'è risposta a questo mistero. Infatti, in qualsiasi posizione che io possa assumere, avrò una prospettiva diversa. Diversi punti di vista dallo stesso paio di occhi. Qual è la ragione della scelta di mantenere più punti di vista disponibili? Cosa succede quando c'è un visitatore solitario che guarda le tue opere? Cosa vuoi che lui / lei pensi?

Nel corso degli anni la mia ricerca ha preso diverse direzioni e questi elementi caratteristici sulla prospettiva, punti di visione e gioco di sguardi, ritornano spesso come fulcri principali. Sono sempre attratto dalle possibilità intrinseche nell’uomo e nel suo sguardo. L’uomo è unico, irripetibile e il suo pensiero può differenziarsi da quello di un suo simile: contrastando diverse strutture sociali e i forti poteri che tendono a uniformare questo sguardo. Proprio in questo sta la sua forza, il poter mettere in discussione situazioni diverse. Così nelle mie opere preferisco creare una sorta di sguardo multiplo, differenziato. Le mie installazioni offrono spesso la possibilità d’esser viste da più angolazioni e appaiono diverse, enigmatiche, in continuo dinamismo tra un interno e un esterno. CamerAptica (2006), Annunciation (2008), Constellation (2011), sono grandi installazioni prospettiche anamorfiche che giocano sul rapporto tra punto di vista prestabilito, entro cui tutto appare ordinato e ben costruito, e una fugace e precaria immagine rappresentativa vista dall’esterno, dove la visione presenta uno spazio puramente caotico ed entropico. CamerAptica, da Deleuze, è lo sguardo aptico, che si completa grazie agli altri sensi, divenendo olfattivo e auditivo.

 

Rosalind Krauss sostiene che la griglia rivela la separazione tra il punto di vista percettivo e quello del mondo reale.  Adesivo che collega i materiali di installazione e la struttura che divide la tela. Come nel Rinascimento, la prospettiva veniva usata come struttura simbolica per rappresentare il mondo, così la griglia diventa il nuovo sistema di riferimento per il XX secolo. Un metodo per descrivere la realtà senza descriverla. Krauss sottolinea un altro aspetto fondamentale: la griglia è un procedimento schizofrenica, che può essere espressa come la contrapposizione tra centrifugo e centripeto. Presentandosi come una piccola parte prelevata da un complesso più grande viene considerata centrifuga, essa spinge lo sguardo dello spettatore all'esterno, al di là di quella particolare totalità di frammenti. Mentre il movimento centripeto deriva dalla separazione che la griglia attua da tutto ciò che la circonda. Quale forza è nascosta dietro le tue architetture? Sono centrifughe o centripete? O sono entrambi?

La prospettiva come tecnica scientifica e matematica per ricostruire la realtà riassume e rappresenta una parte significativa della nostra cultura occidentale, di come noi intendiamo la visione, la rappresentazione. È il nostro punto di vista razionale. Dice molto di noi, della nostra società e della nostra storia. Tutto ha inizio nel Medioevo, per poi affinarsi sempre di più. Vi sono numerosi trattati scritti dagli stessi artisti del Rinascimento, come il De prospectiva pingendi di Piero della Francesca o il De pictura di Leon Battista Alberti. Inoltre, sono sempre rimasto molto affascinato dall’uso della prospettiva dei vedutisti veneziani, come Guardi o Canaletto. Avevano costruito delle vere camere obscure, anticipando di gran lunga quello che poi sarebbe diventata la macchina fotografica, un processo che può essere comparato all’atto di dare forma all’immagine nella loro mente. Nel mio lavoro c’è tutto. Il buio, la formazione dell’immagine, la griglia prospettica, ma all’interno di questa griglia le persone posso decidere di mettersi in un punto qualsiasi e non definito dove far fluttuare il loro sguardo. A volte queste griglie prospettiche possono avere un punto di vista, due o addirittura diventare caleidoscopiche. Una sorta di movimento si innesca – centripeto o centrifugo, non importa. Ci sono alcuni punti verso i quali tutto converge o diverge. Euclide mi ha insegnato che due rette parallele si incontreranno solo da qualche parte nell’infinito e ho utilizzato questa teoria in lavori come Via (2010), Evoluzione (2009) o Hidden Steps (2016). Io sono solo un punto della retta parallela. L’evoluzione è frattale, non importa conoscere la propria posizione, la visione è di nuovo all’interno di un caleidoscopio.

 

I tuoi progetti sono composti da spazi vuoti all’interno dei quali dovremmo sentirci protetti. Come può il vuoto essere una barriera per bloccare tutti gli attacchi esterni che potremmo dover sopportare? Questo è in qualche modo connesso alla paura dell'ignoto che viviamo in questa epoca segnata dal progresso tecnologico?

Il vuoto può assumere diversi significati. Quando Malevic dipinse il bozzetto per Vittoria sul Sole, più tardi rifatto come Quadrato nero, egli voleva probabilmente rappresentare il grande sipario che separa il palcoscenico prima che incominci spettacolo. Si trattava di una grande rivoluzione intellettuale e artistica. Una nuova apertura per innumerevoli possibilità, egli pensò al momento prima di un nuovo inizio. A volte preferisco sentire il vuoto come punto di partenza, un momento di grande energia, concentrazione e meditazione. Ma il vuoto è anche vivere nell’ignoto. Protection, ad esempio, realizzata nel 2014 durante una residenza di 6 mesi a Shanghai, era lo stato di un’emozione. Sentivo la mia solitudine, la mia intimità, il mio silenzio in contrasto con ciò che era il fuori, così vasto, veloce, rumoroso. Ma era anche la rappresentazione di un grande ostacolo invisibile tra me, la mia cultura e qualcosa di assolutamente diverso e lontano. Forse oggi, nella vita quotidiana, riconosco sempre più questo pericolo di poter perdere questo vuoto essenziale: sentire il mondo nel silenzio, essere altrove, posizionarsi distanti per riconoscerlo meglio. Il progresso tecnologico ha portato a una velocità impressionate che impedisce il pensiero profondo. Non c’è spazio per l’attesa, l’assenza, il sacrificio. Alcuni anni fa avevo realizzato alcune fotografie mentre riflettevo sui concetti di accadimento o attesa, poiché nell’attesa c’è potenziale e raccoglimento.

  

Quando svuoti qualcosa che in origine era pieno, dove va tutto lo scarto? Qual è il suo posto nel tuo mondo?

Quando lavoro attraverso un processo di selezione, scarto l’eccesso di materia per arrivare all’essenza della forma. Protection, Kaleidoscope, Hidden Steps, sono pure linee disegnate nello spazio. Ma non sempre è così. Nella mia ricerca vi sono opere decisamente “pulite”, astratte e pure (“Interior Projections” e i Wings, realizzati tra il 2010 e il 2017), altre più materiche, visionarie ed oniriche (tutta la serie di “teatrini” e “Wunderkammer”, realizzati tra il 1999 ed il 2012).

Nel mio processo creativo, che si sviluppa soprattutto scrivendo suggestioni, annotando informazioni, disegnando e fotografando la realtà circostante, molti frammenti prendono una nuova forma. Altri aspettano nel mio archivio anche anni prima di essere utilizzati.

 

Tratti sempre con spazi, architetture, luoghi, contenitori. Ma quando uno spazio comincia a parlarti? Qual è la relazione che hai mentre approcci un nuovo spazio? Cosa pensi per prima cosa mentre lo guardi?

Devo fare qualche passo indietro. Ho avuto una formazione abbastanza trasversale. Ho studiato Scenografia all'Accademia, ma sono anche rimasto fortemente condizionato dai miei studi sull’architettura. Al contempo m’interessavo anche di pittura, poi di fotografia, seguendo un workshop tenuto da Guido Guidi, e di video, studiando regia cinematografica alla scuola di Cinema di Milano. Ero molto curioso e frequentavo le gallerie. Probabilmente, l’aspetto fondamentale della mia pratica è il momento della progettazione come fase determinante per processo d’ideazione e realizzazione di un’opera, così come la relazione dell’opera con lo spazio circostante. Quando inizio un nuovo progetto per un determinato luogo, inizio dalla misurazione dello spazio e dall’analisi delle sue caratteristiche: luci, forme, materiali, spazi di fruizione, elementi storici. L’allestimento, la posizione delle opere, ma anche le loro caratteristiche derivano dalle qualità dello spazio e dalla relazione con i visitatori. Questo è molto importante per me. In certe occasioni lo spettatore diventa agente attivo al quale è permesso entrare nelle mie architetture o di girarci attorno. Studiare scenografia ha arricchito i miei studi complessi e articolati. Ho sempre inteso la scenografia non solo come un semplice decoro o abbellimento dell’ambiente, anche se in questo mi scontravo con una certa tradizione culturale – basti pensare che il termine scenografia in francese è definito con décor – ma pensavo potesse essere un ideale contenitore in cui vari linguaggi potessero organizzarsi. Lavorare in teatro per alcuni anni – tra il 1995 e il 2004 – mi ha dato la possibilità di esperire lo spazio nelle sue potenzialità. Sono stato in grado di vedere tutti i processi di questa complessa macchina. La progettazione, la costruzione e la dislocazione degli oggetti nello spazio, la disposizione delle luci e l’osservazione dei movimenti di scena sono tutto attività che mi hanno aiutato a considerare il palco come un processo continuo.

  

Quali esperienze hanno particolarmente influenzato la tua tecnica artistica?

Tutte le esperienze che ho avuto sono state molto diverse e davvero arricchenti. Anni fa, venni invitato a realizzare alcune installazioni ad Istanbul, durante la Biennale d’Arte nel 2005, così, ebbi l’occasione di vivere in Turchia per un periodo di qualche mese, prendendo molti suggerimenti. Rimasi molto colpito e affascinato dalle decorazioni antiche e da certe rappresentazioni del sacro. Per noi occidentali lo spazio sacro può essere raffigurato su diversi piani; possiamo posizionare le figure secondo una gerarchia. Negli stati Islamici questa scelta non è permessa e non è possibile trovare alcuna figura umana, poiché è considerato blasfemo. Tutte le immagini scorrono sullo stesso piano piatto, come si trattasse di disegni disposti sulla carta di una pergamena. La rappresentazione del sacro avviene tramite la scrittura, la decorazione grafica o architettonica.  Visitando moltissime moschee ho sempre osservato la miriade di trame matematiche nascoste nei dettagli architettonici. Una cosa interessante che trovai fu anche la quantità di legami stretti con la nostra cultura. Mimar Sinan, architetto di molte moschee presenti ad Istanbul, era un grande ammiratore dell’architettura rinascimentale italiana.

 

Sto guardando un lavoro in particolare che hai esposto alla galleria The Flat a Milano nel 2012. I tuoi artefatti sembrano fluttuare nell’aria come nuvole, in attesa di qualcosa. Che cosa stanno aspettando?

In Behind the curtains ho posizionato diversi oggetti realizzati in carta su di un muro vuoto, dove rimanevano sospesi, sostenendo la rappresentazione di uno spazio prospettico indefinito. In parte ad essi, una vera porta con un gradino ed una lampada al neon. Questa parete bianca era uno spazio liminare tra realtà e rappresentazione. Qualcuno sarebbe potuto entrare a breve, facendo crollare questa traccia illusoria. La costruzione artificiale sarebbe sicuramente stata chiamata in causa. In questo spazio teatrale, quasi comparabile a uno scenario di Samuel Beckett, siamo spinti a chiederci: “Che cos’è la realtà?”

  

L'equilibrio in questi ambienti sembra stare in equilibrio su una linea sottile. All'improvviso immagino un evento catastrofico che sovverta tutti gli ordini. Cosa rimarrebbe sulla tua scena teatrale? Immagina di essere Giorgio De Chirico. Quali frammenti sopravvivrebbero alla tempesta?

L’ordine che caratterizza i miei progetti viene dalla mia educazione, dai miei studi. La costruzione classica è innata, ma al suo interno, c’è un movimento nascosto: è un grosso interrogativo sulle nostre origini e le nostre future direzioni. Da un lato c’è ordine, sapienza matematica, razionalità con la quale costruiamo ogni cosa; dall’altro ci sono la solitudine e i dubbi che portiamo con noi. Il rigore ci serve per la nostra pulizia mentale: una cura illusoria per salvarci dall’oblio. Il caos è una situazione ricorrente. Esso arriva dall’esterno o siamo noi a crearlo, come succede per l’inquinamento e la distruzione del nostro stesso habitat naturale. Vogliamo controllare e allo stesso sopraffare la natura. Desideriamo sia un giardino perfetto che una foresta selvaggia: come per Giorgio De Chirico quando ritrae le piazze italiane in atmosfere sospese e silenti, statiche, dove però dietro ad un alto muro di cinta si può intravvedere un treno sbuffante. Una vibrazione scorre dietro le cose. In Le muse inquietanti l’artista riprende sullo sfondo la silhouette del castello estense di Ferrara ricordandoci Michelangelo Antonioni, che in Zabriskie Point contrappone la solitudine con l’attesa di un’esplosione inaspettata. Il mio lavoro vive della stessa tensione, può essere visto come il momento prima l’esplosione o dopo l’evento catastrofico, quando i frammenti sono ricomposti. Ciò che rimane sono elementi utilizzabili per costruire nuovi mondi, nuove immagini.

 

A volte i visitatori hanno delle aspettative e dopo un attento studio della tua produzione non posso impedire di domandarmi se hai mai pensato di utilizzare lo specchio come personaggio della tua trama di soggetti inanimati? Una superficie riflettente è un medium che considereresti per ampliare le percezioni e moltiplicare i punti di vista?

Lo specchio (come abbiamo visto per la prospettiva) accompagna da sempre il mio lavoro. Ho iniziato dipingendo e fotografando i muri delle case abbandonate; intendevo queste superfici come stratificazioni di memorie storiche e personali.  Lo specchio alchemico, presente in Annunciazione (2008), è una superficie sensibile sulla quale si formano le idee e le immagini, oppure in Threshold (2008), grande installazione attraversabile, dove una sorta di soglia specchiante si affaccia su un profondo corridoio, dove una prospettiva lineare ordinata conduce all’infinito. Un importante esempio di questo tipo è Reflections, installazione realizzata in occasione della mostra Lo spazio del sacro alla Galleria Civica di Modena nel 2010. Alcuni oggetti, in parte estrapolati dalla realtà (una sedia, una porta, un letto), sono allineati lungo un asse, un’immaginaria superficie riflettente che attraversa e separa idealmente lo spazio espositivo in tutta la sua larghezza. Da un lato gli oggetti appaiono invecchiati, fatti di materiale temporale e mortale, dall’altro sono un riflesso del loro modello, ideale cristallizzato in un tempo immutabile, immortale ed eterno. L’esperienza di oltrepassare quell’asse simmetrico è offerta al visitatore, che diviene attore e fattore chiave per il funzionamento della messa in scena: varchiamo la soglia/specchio che divide i due mondi simmetrici, ma la nostra immagine non viene riflessa, è esclusa dal gioco dello specchio e diviene soltanto presenza incorporea. L’illusiva trappola prospettica è svelata.  La soglia, il limite tra queste due realtà diviene così esperienza del doppio e del riflesso imperfetto del mondo, delle idee; ma è anche esperienza dell’ambiguità – qualcosa tra precarietà e l’idea d’infinito –  e dell’ambivalenza insita nel pensiero dell’uomo.

  

Un ringraziamento speciale a The Flat – Massimo Carasi per avermi fatto conoscere Paolo.

Giulia Gelmini