Interviste

 

 

(Cronaca di Mantova, venerdì 21 giugno 2019)

Intervista a Paolo Cavinato

L’ambigua solidità dello spazio   

Renzo Margonari

 

Credo che in questa conversazione domande e risposte contengano determinazioni critiche sufficienti a dare un’idea della cultura e intelligenza creativa di Paolo Cavinato, istallazionista e scenografo (Rodigo, 1975 - vive e lavora a Rodigo e Copenaghen). Perciò rinuncio a una nota introduttiva. L’artista si è già segnalato in campo internazionale vincendo importanti riconoscimenti e premi. Inoltre -da encomiare- han qui scansato l’implacabile tritacarne del mercato artistico col suo micidiale ricambio rapido dei talentuosi che avviene senza averne veri cato il vero potenziale creativo. È prevedibile che la sua carriera avrà un pieno e duraturo successo se ricorderà che si deve seguire la propria cometa senza farsi sviare da contingenze esistenziali. Come occasione per questa intervista, segnalo la sua quali cata partecipazione ad Art Basel 2019 nei ranghi della galleria milanese di Massimo Carasi, già presente a Mantova, “ e Flat”, gurando nell’evento Volta Show, appena concluso, dal 10 al 15 giugno. 

 

Hai cominciato presto a muoverti in un territorio di astrazione geometrica, dove rappresenti lo spazio come fosse un ogget- to solido. Pieno e vuoto. Mentre chiudono porzioni di questo spazio -credo meta sico, alla De Chirico, le tue strutture sono però aperte, perforabili dallo sguardo e sicamente percorribili, attraversabili e trasparenti. Sono ingannevoli poiché in realtà si tratta di trappole visive. Tuttavia, queste strutture si de niscono tra scultura e architettura evitando espressioni emotive. In gergo jazzistico direi che hai un’espressività “cool”, cioè fredda, simmetrica, ragionata, come il design degli anni Cinquanta che conduce al Minimalismo e all’arte Concettuale. 

 

Forse intendi i “Corridoi” o le “Proiezioni interne”, in cui il disegno prospettico traccia nello spazio vuoto un’ idea di luogo immaginario meta sico. Qui, però, prevale un aspetto contemplativo, mentre altri lavori sono sicuramente più concettuali. Ho studiato attentamente il movimento dell’Arte Concettuale, l’ho in parte assorbito, ma il mio lavo- ro è anche estetico, volto al ritorno all’oggetto come manufatto artigianale. Ho sempre guardato con una certa attenzione e fascino all’opera di René Magritte e credo che anche Joseph Kosuth avesse in mente il dipinto “Questa non è una pipa” (1928) prima di realizzare “Una e tre sedie” (1965). Nella mia opera “Reections” (2010) faccio un intervento simile ma di lato, presentando diversi oggetti allineati, alcuni di uso comune, altri completamente frattali, studiati seguendo rigorosi calcoli matematici, in cui è presente anche una sedia. Sono oggetti afunzionali relegati a uno spazio puramente mentale. 

 

Sì, c’è un’idea persistente di esperimento congegnato con rigore geometrico ma calcolato come gioco razionale. Colgo nel tuo lavoro anche una quota di utopia visionaria che si risolve nel ri esso speculare ripetuto prospetticamente e nelle ge- ometrie impercorribili e inabitabili ma travestite da ambienti-spazio logici che capovolgono la percezione “permeabile” dell’altra metà delle tue invenzioni. Sembra un’interna contraddizione, oppure un’estensione capovolta del tuo pen- siero. Credo che ciò non possa consolidare o rassicurare l’osservazione di chi guarda, mentre tu, invece progetti maliziosamente questi ambienti e oggetti come fossero congegni scattanti... Data la mia educazione estetica visionaria, faccio osservazioni pertinenti o ti pare un’interpretazione distorta? 

 

Corrono alla mente tantissimi riferimenti. Ne accenno alcuni per me fondamentali: le illusioni prospettiche create da Borromini, “L’enigma dell’oracolo”, (1911, n.d.r.) di Giorgio De Chirico (la tenda, il muro, l’andare oltre...), le architetture visionarie di Etienne-Louis Boullée, le più recenti installazioni sulla materia e il vuoto di Alicja Kwade o gli esperimenti scientifico- atmosferici di Olafur Eliasson. Due punti cardine ritornano ossessivamente: realtà e rappresentazione. La loro stretta relazione mi procura un senso di spaesamento, ambiguità, mistero. Così cerco a volte di ricreare questo senso di perdita o disorientamento. In “CamerAptica”, “Annunciazione” “Constellation”, opere realizzate tra il 2006 e il 2011, la real- tà si presenta come un pulviscolo caotico di frammenti sparsi e sospesi nello spazio che visti da un punto prestabilito, per gioco anamorfico, si riorganizzano ricreando un mondo che ha un preciso senso organizzato (razionale) soltanto se visto esattamente da quel punto prospettico. 

 

Si, credo di aver percepito esattamente le linee programmatiche, merito della tua chiarezza espressiva. Il senso delle tue immagini, anche in virtù di una organicità dei materiali ed esecutiva con il soggetto, è inequivocabile. Le tue invenzioni, però, non corrispondono del tutto all’astrazione geometrica, poiché con l’ideazione di oggetti “comun” ti avvicini alle astrazioni di certi designer italiani, tra cui, forse, vale ricordare Joe Colombo e ancor prima il nostro grande Marcello Morandini, ma non sei neppure oggettivamente - figurativo. Allora, secondo me, presto penserai all’utilizzo abitabile -non solo virtuale- delle tue invenzioni spaziali? Allora come si potrà abitare un inganno ottico? 

 

Mettendo in continua discussione ciò che consideriamo realtà psico sica, la mia ricerca rim- palla, infatti, come in un gioco di specchi, tra la rappresentazione del reale e la realtà stessa. Certamente, trovo interessanti anche le elaborazioni di alcuni designer, ma spesso sono attirato più da quegli artisti che hanno traghettato la ricerca nel mezzo (tra arte e design), come Bruno Munari e Gianni Colombo (fratello di Joe). Nella mia ricerca ci sono anche le esperienze riguardanti lo spazio abitativo, con grandi installazioni, ambientali, come ad esempio “Soglia” (2008), un fondo corridoio percorribile, che diviene in nito grazie ad un gioco illusionistico di specchi e luci, o la più recente “Kaleidoscope” (2017) già esposta nella Sala del Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova, capace di creare per e etto prospettico una per- cezione distorta allo spazio. Hai colto bene i punti fondamentali. Quand ’ero più giovane, in un periodo di totale sperimentazione, creavo immagini con materiali pesanti, spesso organici, a volte incontrollabili e uidi, utilizzando terra, cera, ferro, acqua, e così via... Ri ettevano un mio stato psichico personale ed emotivamente intenso, percettivo, più umorale, forse più nostalgico o romantico. Così ne scaturivano oggetti che mutavano nel tempo come immagini nella memoria. Poi, con il passare degli anni, ho a nato sempre più una visione chiara e de nita, ma insieme precaria e labile. Studiando e sperimentando il cinema e il teatro, la dimensione temporale è rimasta una parte costitutiva della mia ricerca. Parecchi i video o le installazioni sonore realizzate di conseguenza. Devo poi porre l’accento sull’importanza del pubblico (o dell ’utente), perché nei miei allestimenti, n dalla fase progettuale, diviene parte integrante e interagente. Un’opera diviene così dinamica, perché cambiando sostanzialmente dal punto di visione, possiede diverse prospettive come diversi punti d’osservazione. 

 

Nei tuoi lavori più complessi si evidenziano due elementi caratteristici, la trasparenza e la leggerezza anche grazie all’uso di materiali ni e bene utilizzati. Ve ne sono altri, ma questi due sono sempre presenti, sia nelle stesure piane o nelle costruzioni tridimensionali. Se aggiungo il tempo che impiega lo sguardo ad attraversare l’immagine, posso dire anche quadrimensionali. Un altro dato costante è l’impressione che tu voglia definire con grande precisione un limite in realtà inesprimibile, dove l’equilibrio sico o virtuale sia colto al massimo della tensione prima di cadere. Resto in attesa degli immancabili sviluppi della tua ricerca in questa direzione. 

renzo@renzomargonari.it