Interviste
 
 
Paolo Cavinato oltre la prospettiva sulle tracce dell'infinito
 
di Jacqueline Ceresoli
(Luce web, Maggio 2023) 
 
 
 

Paolo Cavinato (1975), artista concettuale che vive e lavora a Mantova ed è capace di rielaborare in maniera personale codici del Rinascimento italiano in cui le forme geometriche diventano soglie in bilico tra un dentro e un fuori. Come e perché lo racconta in questa intervista.

 

Sei diplomato in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera e hai seguito il corso di regia  cinematografica a Milano. Quanto ha inciso questa formazione nel tuo lavoro?

Queste scelte sono state fondamentali per la mia formazione, in quanto Scenografia racchiude in sé tutti i linguaggi espressivi costituendo uno spazio sinestetico in continuo divenire. Ho poi realizzato alcuni video per mia fascinazione nei confronti della fotografia e del movimento.

 

Dalla scenografia alla scultura – pittura, forme in bilico tra oggettivazione e smaterializzazione. Perché?

Dalla materia alla sua “aura” come una sublimazione alchemica. Si è trattato di un percorso. Anni fa erano immagini sfocate e intrappolate nella cera, custodite in effimere scatole di materiali deperibili, come riemersioni, sprofondamenti di memorie nel decadimento temporale.

Oggi questi miei disegni effimeri, delicati, sostenuti sul vuoto e nel vuoto con fili tesi in carbonio e illuminati da luce LED appaiono come fugaci ed evanescenti fantasmi. Sono una sintesi.

 

Lost (2015), dettaglio interno
 

Quando hai introdotto la luce nella tuo lavoro?

L’ho applicata alle prime installazioni, intorno al 1999-2000, quando, in alcune camere ottiche ricostruite, lasciavo filtrare dall’esterno la luce naturale. Poi valorizzavo le spazialità e le atmosfere inserendo veri circuiti luminosi regolati da dimmer per dissolvenze.

 

Quando hai adottato la tessitura in fluorocarbonio illuminato da un impianto LED?

I disegni in filo di fluorocarbonio nascono intorno al 2009, astraendo tutto quello che era già proiezione prospettica all’interno di spazi e stanze. L’inserimento della luce è arrivato durante l’allestimento della grande mostra a Palazzo Ducale di Mantova nel 2017. Volevo concentrate l’attenzione sul corridoio disegnato in prospettiva centrale e sono riuscito a dargli maggior profondità illuminandolo dal retro.

 

Lavori su spazi soglia, dell’attraversamento, in bilico tra rappresentazione e presentazione di “altritudini”, quali sono i maestri che ti hanno indicato il percorso verso l’insondabile? 

Ero a Monaco di Baviera, intorno al ’96, e sono andato a vedere il museo di arte moderna. A un certo punto della visita mi sono imbattuto in un’opera di James Turrell, in una stanza semi buia, illuminata in fondo da un quadro verde azzurro smeraldo, di un colore luminescente, incredibile. Mi sono avvicinato per capirne il materiale finché mi sono accorto di esser dentro al quadro e immerso nella sua luce. È stato scioccante.

 

Cosmo (2021)
 

Che funzione hanno la matematica, la geometria e la numerologia nella tua ricerca e non soltanto nell’opera Cosmo?

Fondamento della mia ricerca è il progetto, il calcolo, la misurazione dello spazio. Il numero assume una valenza simbolica, oltre ad essere chiave dell’armonia quasi invisibile, ma esistente, delle proporzioni, delle relazioni tra pieno e vuoto. Il numero è il nostro essere qui, in relazione all’infinito.

 

La mostra Another Place ospitata nella galleria The Flat Massimo Carasi a Milano nel 2021 ha rappresentato una svolta?

Uscivamo da un periodo particolarmente cupo (non è che quello attuale sia così tanto allegro… anzi…), strano, al chiuso, un periodo di “distanza”. Qui ho intensificato un’emozione di grande attesa e sospensione. La mostra Another Place è stata un po’ la risultanza di questo periodo, con alcune opere realizzate sul tema della Stanza e il concetto di Attesa, un po’ beckettiane, osservando il movimento di tagli luminosi entrare nella mia casa e attraversare gli spazi interni. Quindi opere come le Stanze, o la serie dei Ghost e i Breath, indicano questi momenti di attesa e di vuoto.

 

Beyond (2013), dettaglio interno
 

Vivere e lavorare a Mantova, culla del Rinascimento italiano, come incide nel tuo lavoro?

Qui a Mantova si ha la sensazione di camminare nella storia, nell’architettura, nel calcolo esatto, e passo dopo passo si percepisce dovunque la maestria di chi ha potuto concepire spazi con regole matematiche. Substrato che si fa inconscio, ti entra nelle viscere.  Quindi, le prospettive, i punti di vista e visione, tipici del Barocco, e i giochi illusionistici sono ritornati nel mio lavoro. Lo sfondamento del quadro e l’andare oltre (nella Camera degli sposi), la simbologia spirituale della Casa del Mantegna, quel disegno inscritto nel cortile. La matematica nelle proporzioni dell’Alberti, la sezione aurea, è formulazione di bellezza. Mantova è un vero gioiello architettonico, storico.

 

LIMEN è il titolo della tua mostra personale a Palazzo Te a Mantova del 2021. Quali sono le opere che hanno dialogato con il luogo e la storia?

Molto del mio lavoro dialoga col “meccanismo” barocco di Giulio Romano, poiché è un sistema di punti di vista, di visioni, d’incrocio di sguardi e traiettorie, sul perdersi o ritrovarsi all’interno delle sue architetture. Vale a dire, la nostra forza culturale dell’oggi consiste anche nel sublimare il passato o parte di esso, farlo nostro e riproporlo con una chiave di lettura attuale. Quindi Limen, Lost, Cosmo e Luce sono tutte opere che si congiungono felicemente alla Sala dei Giganti e alle varie sale, per come sono disposte, di Palazzo Te.

 

Tears (2005)
 

Quale opera rispecchia in questo momento il tuo sguardo sulla complessità del  presente?

Beyond è uno specchio, una domanda sul noi, chi siamo, guardandoci negli occhi, dove stiamo andando. Una domanda sul nostro essere qui in questo momento e il destino ineluttabile e severo del nostro essere di passaggio. Quindi il nostro vederci su una superficie specchiante, ma labile, una superficie evanescente che nasconde però una vertigine.

 

Sei un’artista minimalista concettuale, ma sei attento alla qualità manuale e formale delle tue opere. Perché?  

A differenza dei minimalisti americani dove l’industria, la tecnica e la macchina si sostituiscono completamente alla mano dell’uomo, per me vale il contrario. Mi piace il fatto a mano. E la sfida è anche questo arrivare al punto limite di questa qualità: fin dove posso arrivare? Qual è il limite?

 

I tuoi lavori nascono dall’ombra, dal buio come rivelazione?

Alcune opere del passato senz’altro dall’oscurità, come in Lontananza o Echi. Rivelazione in Drops, come se la luce entrasse a illuminare parti della coscienza, alla Bergson, e poi successivamente dallo specchio nero alchemico in Reflections o Germoglio, dove oggetti luminescenti riemergono dallo zero assoluto. Oppure luce plasmatrice di spazi interni come in Lost e luce che si intensifica in Limen o si fa respiro di soglie socchiuse in Breath.

 

Hai mai ceduto alla figurazione e quando?

Quand’ero studente, dipingevo e disegnavo la figura mettendola in relazione allo spazio, stravolgendola e sublimandola. Studiando la storia dell’arte e soprattutto le avanguardie e le post avanguardie del ‘900 mi sono reso conto della sua messa in crisi e della sua “inutilità”, in un certo senso. Forse per il superamento dell’apparato “quadro”, come superficie di imitazione della realtà, del trompe l’oeil. Ci sono stati una rivoluzione e un “oltrepassamento” col taglio di Fontana, e non solo, quante rivoluzioni! L’arte ha invaso lo spazio della realtà, divenendo gesto, azione,  vita reale. Oggi la figura la fa il fruitore, entrando in connessione con l’opera o riflettendosi in essa.

 

Quali materiali utilizzi oltre al LED?

Recentemente ho utilizzato vernici speciali cangianti e iridescenti in cui, a seconda dell’incidenza della luce e del punto di vista, la superficie cambia caratteristiche.

 

Ti sei mai cimentato in una scenografia per uno spettacolo teatrale?

Un progetto interessante a cui sono ancora affezionato è stato il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi per la regia di Federico Tiezzi. Un’esperienza formativa in cui si metteva in scena l’opera del pittore senese, tra sfondamenti di piani pittorici e giochi di superfici optical.

 

Quali artisti prediligi?

Concentrandomi ad oggi e facendoti pochissimi nomi: Anri Sala, Philippe Parreno, Wolfgang Tillmans, Lisa Oppenheim, Daniel Steegmann Mangrané, Liu Wei, Artur Lescher, Haris Espaminonda, Alicja Kwade.

 

Lavori in silenzio o ascolti musica?

Ascolto moltissima musica, di vario genere, e ascolto il silenzio, e il silenzio ascolta me. Protection, installazione creata durante i sei mesi di residenza a Shanghai, nasceva proprio dalle sensazioni ricevute dalle composizioni musicali eseguite con il Guqin, strumento tradizionale antico cinese.