GL. Paolo, iniziamo dal principio. Per molti artisti già dall’infanzia si assiste alle prime manifestazioni di quella che potremmo chiamare una propensione verso un certo tipo di linguaggio, è stato così anche per te?
PC. Sì, è stato così anche per me, come un gesto del tutto naturale e spontaneo, ma quando si è bambini si mescolano creatività, gioco, divertimento, espressività, comunicazione senza confini, tutto fortemente connesso all’immaginazione. Poi, per la maggior parte delle persone tutto finisce, mentre per me è stato un continuum impossibile da arginare, per cui, ancora oggi sento la necessità impellente di vedere e rivedere, di immaginare e di realizzare fuori di me, una visione, come creatura viva. Ricordo i disegni e i racconti scritti, iniziati e che non finivano mai. E ricordo di aver formulato un pensiero molto chiaro e molto deciso, ad un certo punto, ed era la consapevolezza del mio essere e il mio desiderarmi artista.
Quale è stato il tuo primo amore artistico?
Il mio primo amore artistico, se intendi come stimolo, nel creare, probabilmente è stato mio padre, che dipingeva la domenica mattina. Da sottolineare il fatto che già all’epoca mio padre faceva tutt’altro, lavorava e lavora tutt’ora nell’ambito delle costruzioni meccaniche. Ero bambino e l’osservavo dipingere ad olio paesaggi e nature morte. Ricordo l’olio, le tele, il cavalletto riempito di croste di colore, l’odore e la materia. Dipingeva quadri dechirichiani, tra Carrà e Sironi, metafisici, mentre io di fianco a guardare e imitare, e mio nonno seduto in poltrona a fumare la pipa. Devo poi aggiungere che all’epoca, pur essendo un nostro un piccolo paese di provincia della campagna mantovana, possedeva già un museo d’arte, con una sua collezione, dove si facevano mostre e si organizzavano incontri culturali. Insomma iniziavo già in un contesto culturale di tutto rispetto.
Che studi hai fatto?
Ho un diploma in Maestro d’Arte e una maturità artistica con indirizzo architettura e arredamento, conseguiti all’Istituto d’Arte di Mantova (con forte inclinazione verso Bauhaus). Ho poi seguito il corso di Scenografia all’Accademia di Brera ed un corso di cinema sperimentale alla Scuola di Cinema di Milano. La mia formazione è stata però dentro e fuori l’ambito scolastico e del tutto trasversale poiché per mia curiosità fin da giovane frequentavo gli studi dei miei professori che in parte erano artisti e praticavano le diverse discipline delle arti visive. In seguito mi sono interessato al cinema e quindi al mezzo video come alternativo linguaggio espressivo e alla fotografia seguendo un laboratorio condotto da Guido Guidi, davvero fondamentale, da sommarsi a tutte le esperienze lavorative nel campo della scenografia teatrale, alle frequentazioni di registi e di artisti e del mondo delle gallerie d’arte. Un periodo totalmente sperimentale e schizofrenico.
Durante i tuoi studi hai fatto degli incontri importanti?
Gli anni adolescenziali sono stati piuttosto difficili, di vera formazione e de-formazione, di delusione e forte sconforto, a volte decisamente angoscianti, in cui non riuscivo a dare un senso alla mia inquietudine. Sono stati senz’altro importanti gli incontri con alcuni professori, taluni anche disastrosi, pessimi, molto duri. Non so perché durante l’adolescenza si senta così esageratamente tutto più amplificato, almeno per me lo è stato e forse pensandoci credo abbia formato un substrato emotivo e sensibile. Fortunatamente c’erano i laboratori in cui si lavoravano le materie plastiche della scultura, quindi i metalli, il legno, la creta, eccetera. e i corsi di disegno dal vero, geometrico e di progettazione, che amavo fortemente. Se da una parte apprendevo una visione armonica del mondo, l’ordine, lo studio dei canoni classici, le proporzioni, Pitagora, la sezione aurea, la ricerca del bello, eccetera. dall’altra veniva completamente ribaltata la rappresentazione e si teneva invece conto del caos, dell’entropia, della casualità, del disordine. Ero attirato dai vari possibili sguardi sulla realtà. Carlo De Simone, mio docente a Brera, mi lasciò libero nella mia interpretazione del tutto personale della scenografia teatrale. Con lui ebbi compreso con consapevolezza come il teatro in realtà sia il luogo d’incontro e di scambio tra le varie discipline e linguaggi espressivi. Così poi è stata la lunga e bellissima amicizia, con sua moglie Laura Mancini (i laboratori sul colore!), che mi ha trasmesso l’importanza del percepire e sentire lo spazio, delle possibilità insite nell’essere umano.
All’Accademia hai frequentato il corso di Scenografia, perché?
Mi fa ridere perché in realtà volevo iscrivermi a pittura! Quindi una scelta non scelta, diciamo, un po’ imposta, condizionata. Non conoscevo e non sapevo assolutamente nulla di cosa fosse la scenografia. Un po’ ero stato consigliato da alcuni professori delle superiori e un po’ era un compromesso rispetto ai miei genitori che non vedevano benissimo questa mia scelta di studi. Certo se avessi fatto pittura o altro oggi la mia ricerca con tutta probabilità sarebbe altra cosa. In positivo la scenografia mi fece capire meglio lo spazio e le sue caratteristiche, di tridimensionalità, luce, movimento, suono, con tutta l’implicazione della figura umana al suo interno. In negativo, posso dire di esser giunto al mondo dell’arte, inteso come sistema dell’arte contemporanea e delle gallerie d’arte, un po’ tardi, ma con un bagaglio di esperienze piuttosto importante.
Terminati gli studi hai lavorati nell’ambito teatrale?
Già durante l’Accademia collaboravo con piccole compagnie milanesi nella realizzazione di oggetti o elementi di scena, ma fondamentale fu l’incontro con lo scenografo Ezio Frigerio, durante un seminario/laboratorio organizzato dal Piccolo Teatro di Milano, dove fui letteralmente prelevato e invitato a lavorare come assistente nel suo studio parigino. Quindi per un bel periodo, in Rue Des Archives, disegnavo e modellavo bozzetti per importanti scenografie di opere liriche, o progettavo case o residenze private. Un’esperienza davvero intensa vivere e lavorare a stretto contatto di un grande maestro, una personalità impressionante! Non dimentico poi il fatto che quello studio parigino diventava la sera poi luogo d’incontro e dibattito tra importanti intellettuali amici di Frigerio. Nel contempo, firmavo alcune scenografie, e collaboravo con registi come Federico Tiezzi e Michael Znaniecki.
Queste esperienze si sono rivelate importanti per il tuo lavoro di artista?
Nel concepimento di una nuova visione dello spazi la mia ricerca personale non aveva mai smesso. Le mie mostre con alcune mie prime installazioni continuavano in una ricerca incessante verso un mio segno, una mia identità. Ma nonostante tutte queste importanti frequentazioni e collaborazioni mi sentito un po’ estraneo al mondo del teatro, e lo vivevo da artista, con un occhio diverso, non del tutto coinvolto. In me maturava una strana sensazione: lo spettacolo teatrale e il teatro in genere mi sembrava una messa in scena finta, di finzione, e lo era, e lo doveva essere! Mentre il mio lavoro lo percepivo come qualcosa di tangibile, vero, reale, legato alla verità. Non capivo e non apprezzavo il teatro all’italiana, dove la parola e il racconto è predominante su tutti gli altri linguaggi. Volevo e ricercavo uno spazio d’astrazione e di sperimentazione, dove tutti i linguaggi si compenetravano in equilibrio e disequilibrio. Quindi non sopportavo il teatro parlato, di sola parola, mi sembrava tutto molto simile e ridondante. Così quando vidi e scoprii i progetti della Societas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, ne rimasi folgorato, sconvolto. Da qui venne una crisi profonda ed una cesura abbastanza netta, devo dire: non ero per niente soddisfatto del mio percorso come scenografo, non mi sentivo me stesso ma un semplice tecnico alla mercé del regista. Mentre avevo delle idee e delle visioni mie sullo spazio scenico molto forti. Così abbandonai il mondo del teatro, sebbene avessi realizzato importanti progetti, sentivo che non era la direzione giusta.
I tuoi primi esperimenti nell’ambito della pittura a quando risalgono?
Fin da giovane, ma ancora oggi, rifletto il senso del “quadro” e il senso del fare pittura. Negli anni ho cambiato mezzi e supporti, sperimentando luce e colore fino alle ultime Iridescenze e Tessiture, vere esperienze pittoriche fatte di sottili particelle di luce e colore su fili in carbonio. Un periodo importante in cui ho riflettuto seriamente sul senso di fare pittura, arrivando ad indagare lo spazio fisico esterno al quadro è stato senz’altro tra metà degli anni Novanta e il 2008, anno di passaggio e consolidamento delle installazioni e delle stanze anamorfiche, da CamerAptica, Soglia, Annunciazione e Reflections
Che tipo di lavori facevi?
La superficie pittorica era come uno schermo-specchio e specchio alchemico, nero e poi bianco, su cui lasciavo sedimentare materie organiche, naturali (terre, polveri, foglie, legni, minerali, eccetera), che poi in successione gestuali, diventavano “spaziali”. Dopo aver abbandonato ogni traccia illustrativa e rappresentativa, prima surrealista, poi simbolista e più espressionista, ho indagato la superficie del quadro come concetto spaziale, soglia, ritaglio vivo dell’esperienza.
Da queste esperienze bidimensionali come si evolve il tuo percorso verso lo spazio e la terza dimensione?
In età adolescenziale rappresentavo interni, stanze come scatole, o viceversa, dove era già evidente un’interesse particolare per la tridimensionalità, per la teatralità, la messa in scena, il racconto, l’interiorità, eccetera. Poi più tardi, appunto tra il 2007 e il 2008, lavorando sulle superfici come specchio alchemico, spazio entropico, caos, ho iniziato ad inserire elementi della prospettiva, partendo dall’orizzonte, e ricostruendo lo spazio secondo ordini matematici. Quindi tra caos e ordine. Le superfici pittoriche, di tele e pannelli di legno, intrisi di materie dure come muri, diventavano lo slancio per elementi aggettanti, di oggetti che racchiudevano una vita, a volte di acqua gocciolante, quindi inserendo anche l’idea di ritmo e il tempo, di elementi in espansione, e seguendo l’evoluzione, sono passato alle vere installazioni e a tutto il discorso legato allo sguardo e al guardare. Più recentemente sono ritornato al discorso del “quadro”, riprendendo l’antica macchina prospettica scientifica, rinascimentale, brunelleschiana, facendo una importante riflessione sul nostro senso culturale del guardare: lo sguardo si fissa su alcuni punti definiti e organizzati per poi diramarsi e spingersi seguendo direzioni sul campo dello spazio. Tutto lo spazio nasce da un punto, da come noi lo osserviamo. Oggi, oltre le superfici, lo sguardo si è inoltrato nella materia delle particelle e le loro relazioni nello spazio vuoto. Non dimentico le esperienze in Turchia e Cina e l’apprendimento di un diversa concezione di lettura dello spazio.
Che cosa ti ha spinto a dedicarti alla scultura e all’installazione?
La storia dell’arte e la sua evoluzione. Trovavo esaurito e non più attuale il concetto di mimesis, come idea di una pittura o scultura illustrative. Ero interessato ad un’arte a supporto di riflessioni più esistenziali e contingenti, reali. Come spiegavo ho indagato la superficie pittorica come riflessione dello spazio, aprendomi al tutto, e come certe emozioni invadono lo spazio, come aria e luce. Non dimentichiamo tutti gli studi fatti sulle avanguardie artistiche e non. Come possiamo ricucire il taglio di Fontana? Non poteva quindi andare diversamente, visto il mio percorso, anche se ancora oggi non riesco a considerarmi scultore, non avendo una formazione prettamente tecnica scultorea, esulo dal termine, mi sento un ricercatore visivo, dello spazio. Ma a volte sento proprio esauriti i termini stessi di pittura e scultura, come mezzi e categorie espressive. Che cos’è pittura e cos’è scultura oggi? Forse in questi termini mi sento più legato al disegno, ma il mio fare comprende un discorso concettuale sullo sguardo, sul guardare, sull’osservare.
Nel tuo lavoro che importanza hanno il tempo e lo spazio?
Il Sole, col suo movimento determina i concetti di spazio e tempo, sono le nostre dimensioni del vivere quotidiano, ma sono solo due delle molte dimensioni in gioco. Noi viviamo la nostra realtà senza renderci conto delle molteplici strutture che vi stanno dietro, e forse, per fortuna! Siamo fatti di particelle e di relazioni, e attraversati da onde d’energia (ora mentre penso e scrivo qui io stesso vengo attraversato da altre dimensioni), e siamo per lo più fatti di vuoto. Non conosciamo quasi nulla, e questo mi terrorizza e affascina allo stesso tempo. Così i miei recentissimi Codici, sono visti come misteriosi e incomprensibili alfabeti, oppure si svelano in forme precise nello spazio da punti prestabiliti. Ma tempo e spazio non sono rigidi, si dilatano o si restringono, si muovono e si modificano. Tutta la nostra storia (così come la storia dell’arte) segue il dinamismo, così come l’evoluzione umana segue una direzione, un guardare avanti. Se penso alle mie sperimentazioni video, che erano già veri quadri pittorici in movimento, composti come fossero musica, oggi nelle installazioni tra cui i Breaths e Lost, i tagli luminosi appaiono e scompaiono come echi nello spazio vuoto. In Beyond la figura umana, anzi, l’Io, il noi, il nostro esserci lascia posto ad una via rettilinea, che si dilata improvvisamente come un varco davanti o dentro di noi.
Quando fai una mostra ti interessa l’idea di messa in scena del lavoro?
La messa in scena segue un’idea di racconto, poiché esiste una gerarchia e quindi una politica nello stabilire delle posizioni. Mi piace progettare l’allestimento seguendo un’idea di percorso. Importante è realizzare gli oggetti, le opere, e allo stesso tempo pensarle già collocate in uno spazio o in relazione tra loro. Probabilmente, una cosa che mi è rimasta del teatro è l’aspetto dell’attesa e dell’accadimento, dell’operare, affinché si arrivi ad una specie di catarsi. Il teatro è un rito che ha una sacralità collettiva, come una sorta di evento, di esperienza collettiva o di epifania, a volte però solitaria, intima.
Che tipo di relazione cerchi con gli spazi in cui esponi?
Amo mettermi in gioco ogni volta facendone una nuova esperienza. Voglio sapere di cosa son fatti gli spazi, da quale luce vengono attraversati, di quali materie sono composti, le loro proporzioni, le forme, le altezze, le dimensioni, se vi sono tracce storiche o no, tutto ciò consolida una specie di aura del luogo. Cercare di coglierla per poi inserire alcuni elementi già esistenti o realizzati ad hoc. Pensare a come il fruitore potrà muoversi all’interno. Tutto rientra nel quadro della progettazione, del calcolo, della misurazione, e della costruzione. Nel mio procedere, l’allestimento acquisisce sempre più importanza e non è solo una questione di realizzare degli oggetti ma di come porli in relazione tra loro e lo spazio.
Sei interessato all’idea di opera d’arte come esperienza immersiva?
È un termine che oggi sta andando molto di moda, non so se stiamo vivendo una sorta di grande fraintendimento tra arte e creatività (come evento d’intrattenimento), oppure che sia questa l’attuale direzione dell’arte? Siamo sempre più coinvolti in installazioni immersive, effettistiche, sensoriali, percettivamente coinvolgenti che non chiedono nulla. Si stanno trasformando musei o città in luna park? Mi chiedo però sempre più che cosa sia arte e intrattenimento. Non sono molto attratto da questo genere d’esperienze, mi interessa il potenziale insito e custodito nell’opera d’arte, in grado di rivelarsi al pubblico anche nell’intimo come manifestazione della condizione umana. Anni fa, lo spazio aptico, presente ne La metamorfosi di Franz Kafka e approfondito in seguito da Gilles Deleuze, mi aveva suggerito queste possibilità, di vedere con l’udito o con l’olfatto, cioè di una vista acuita degli altri sensi. M’interessava il discorso sinestetico applicato allo spazio. Oggi sono sempre più interessato al “minimo”, all’assenza, all’idea di margine, di limite, preferisco l’umiltà agli effetti roboanti.
Tal volta le tue installazioni sono accompagnate da un lavoro sulla dimensione musicale: come nasce questa esperienza e che sviluppi ha avuto nel tempo?
Erroneamente si pensa ad una sorta di accompagnamento musicale, mentre si tratta di una vera fusione, di una tessitura del materiale dell’opera e non di una colonna sonora applicata sopra e in un secondo momento... Anche questa dimensione deriva dall’esperienza video (1995-2006), dove ero interessato alla costruzione delle immagini spesso partendo dalla realtà tangibile, per trasformarla a veri quadri pittorici in movimento, e poi durante l’editing di montaggio, come fossero componimenti musicali. Con l’amico compositore Stefano Trevisi, iniziammo la collaborazione nel 2006, partendo da frammenti visivi e sonori (prodotti da veri stumenti musicali) che si ricomponevano secondo punti stabiliti nello spazio. Le prime installazioni realizzate insieme erano pensate proprio come sperimentazioni tra differenti sensazioni e media. Quindi il visivo, la materiala plastica, e il sonoro come componete dinamica, poi, le luci e centraline elettriche e temporizzatori per creare vere macchine cinetiche. Quindi di spazio visivo e sonoro in movimento. Le esperienze si sono succedute e diversificate. Da un dialogo creativo dove musica e scultura si compenetravano, in alcuni casi mi lasciavo ispirare io a certe sue sonorità o viceversa chiedevo a Stefano di realizzare alcuni suoni su elementi scultorei. Ad esempio, in Lost, pensata e realizzata a Shanghai (durante una mia residenza di sei mesi allo Swatch Art Peace Hotel), aspettava una sua parte musicale, così gli chiesi di elaborare alcuni gong cinesi da inserire e dialogare con la parte luminosa dell’opera.
Secondo te un’opera d’arte esiste anche in assenza di un fruitore?
Una bella domanda. A differenza di un evento di carattere oggettivo o di un organismo autonomo, l’arte non può esistere, se non viene vissuta da alcuno. Essendo un insieme di regole, in quanto sistema di senso, esiste nel momento in cui noi la percepiamo e le diamo un senso. Che sia quindi un riflesso dell’uomo? L’arte è una domanda che innesca altre domande. Noi ricerchiamo l’invisibile che si rivela soltanto nel momento in cui lo recepiamo. L’arte è un fatto, ma è un sistema a cui soltanto noi diamo un senso. Ma gli oggetti ci sono, e forse già esistono (nell’immaginario?), e forse si tratta di farli emergere dall’oblio? Ma se emergono significa che essi esistono e sono solo nascosti?
Che tipo di rapporto cerchi con il pubblico che viene a contatto con il tuo lavoro?
Voglio concentrarmi sull’opera e sul suo manifestarsi, curandone l’allestimento, e una volta concluso, mi metto da parte ad osservare, ad osservare l’opera dalla parte del pubblico e ad osservare il pubblico che osserva l’opera.
La maggior parte dei tuoi lavori rappresentano spazi che non potrebbero esistere senza l’uomo. La sua presenza è spesso suggerita, evocata. Ti è mai venuta la voglia di rappresentare delle figure all’interno dei tuoi lavori?
Nel mio lavoro il fruitore diventa parte integrante di esso. Sono io che guardo, io inteso come persona, io che mi trovo qui, ora, scelgo e prendo coscienza del mio stato attuale. In alcune opere come Phantasma e Reflections, il fruitore stesso svanisce, e diventa fantasma. Così come in Soglia e in Beyond, egli vede la propria immagine svanire all’interno del corridoio profondo. In Protection, diviene puro calcolo e proiezione interiore, infinita. In tutte le opere realizzate come disegni con i fili dipinti siamo noi che guardiamo. Anni fa inserivo la figura, smembrata in frammenti, tra surrealismo e cubismo. Poi in forma di silhouette, ombra, fino a svanire del tutto. Ombra, luce e vuoto. Oggi la figura è il fruitore che osserva, e lo spazio vuoto diventa uno specchio a forma di “pensatoio” quasi. Riflettersi e misurarsi. Occorre creare il vuoto, la vibrazione del vuoto, la sua presenza deve restare sensibile.
Nei lavori più recenti c’è una trama di segni che ricorda alcune delle esperienze dell’arte optical, ti interessa questa forma d’arte?
Non ne sono molto appassionato, devo dire, anche se spesso il pubblico fraintende questo mio percorso di ricerca. Sono più interessato ai principi della Gestalt. Nel corso degli anni mi sono interessato alla rappresentazione dell’immagine, allo spazio, alle modalità di rappresentazione e quindi alla sua percezione, alla pittura, alla superficie del campo. C’è una domanda di fondo sul cos’è la rappresentazione e la consapevolezza che dopo tutto, siamo anche figli del novecento e di tutte le sue ricerche affrontate. Per quanto riguarda Waves, il mio sguardo va oltre la prospettiva e la rappresentazione. Innumerevoli particelle di luce, tra pieni e vuoti, di lunghezze e tonalità differenti, formano una serie alternata di onde gravitazionali e come oscillazioni di energia, si propagano nello spazio formando una superficie pittorica cangiante, quasi fosse un corpo vivo in movimento e in trasformazione. Penso alle recenti ricerche scientifiche della fisica quantistica, ma penso anche agli importanti e rivoluzionari studi sul colore e in particolar modo sul “Colore Sferico” del pittore e studioso tedesco Philipp Otto Runge.
Sei interessato ad una dimensione sacra dell’arte?
“La luce divina è penetrante per l’universo secondo ch’è degno”: Dante Alighieri, Paradiso. Il sacro ha accompagnato l’uomo in tutte le sue epoche storiche fondando culture e pensieri. Ha seguito il bisogno di cercare il mistero, di meditare la domanda. Così anche la mia educazione, fortemente cattolica, fin dall’infanzia, ha senz’altro condizionato il mio pensiero e il mio agire. A volte mi son chiesto come sarei stato e come sarei tutt’ora, se fossi nato in una cultura atea, priva di un pensiero spirituale, quali implicazioni avrebbe avuto nella mia vita e nella mia ricerca interiore. L’aver avuto un Dio di riferimento mi ha sensibilizzato nel pormi una costante domanda, come una presenza nella vita e nelle cose, un’attrattiva verso un mistero. Oggi vivo una continua riflessione o meditazione, una sorta di esercizio spirituale, di respiro, che si lega ad un sentire totalizzante, ad una dedizione totale alla mia arte. Alcune ricerche mi hanno spinto verso un indefinito “luogo” che possiamo chiamare “altrove”. Un passo sempre più in là, allontanandomi dalla materia per abbracciare una dimensione “altra”, luminosa.
Il disegno mi sembra rivestire un ruolo centrale in quello che fai non solo dal punto di vista progettuale, puoi raccontare qualcosa in merito?
Il disegno mi accompagna dalla mia infanzia. Negli anni si è assottigliato arrivando quasi del tutto a cancellarsi ed oggi pur essendoci, a tratti appare e scompare, è invisibile, pur vedendosi, e sostiene un’immagine effimera, leggera, sorretta nel vuoto. Il progetto poi è il fondamento per regolare proporzioni, misurazioni dello spazio, legato a qualcosa di mentale e di immateriale. Il mio sguardo è misurazione e calcolo, come se ogni volta, anche semplicemente osservando la realtà, cercassi una proporzione ed una relazione tra le cose. Non credo sia un’ossessione, lo faccio istintivamente e naturalmente. Così il disegno che è stato il motore principale di tutto il mio percorso, oggi in buona parte rimane nascosto, invisibile quasi. Ciò che il pubblico osserva nel mio lavoro è come un’indicazione, una parte tracciata e colorata di un tutto che rimane sotto, invisibile, a sostegno dell’opera.
Alcuni artisti si mettono a lato di quello che fanno (per esempio Giulio Paolini), altri lo guardano dall’alto, alcuni come certi performer ne sono loro stessi il centro. Tu in che posizione ti poni nei confronti del tuo lavoro?
Mi chiedo in che posizione si pongano loro, le opere, nei nostri confronti, perché come dice Enzo Cucchi: “le opere che funzionano hanno occhi e gambe”, ed è verissimo. Gli sguardi sono molteplici. Il mio pormi arriva direttamente dall’interno visto che spesso le mie opere sono realizzate a più livelli, in più fasi e lungamente nel tempo, in mesi e anche anni, in frammenti che si costruiscono poi per magia soltanto alla fine durante l’allestimento, ma alla fine, io stesso mi metto di lato per guardarle attraverso gli occhi del pubblico, per guardarle differentemente.