Mostre

Linie

 

 

Spazio Visivo

Paolo Cavinato - Stefano Trevisi

 

1 maggio 2010  -  12 giugno 2010

 

 

Galerie Mario Mazzoli, GmbH

Zimmerstrasse 13

Berlin D-10969

www.galeriemazzoli.com

info@galeriemazzoli.com

 

 

“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.                 

 

 Jorge Luis Borges

 

 

Nasce a Berlino ed attraverso Berlino il progetto espositivo Linie, articolata installazione site-specific che si offre al pubblico come percorso fruibile tra diverse installazioni multimediali, frutto del lavoro d’ensemble di Paolo Cavinato e di Stefano Trevisi, rispettivamente artista visuale e compositore, uniti nel comune progetto “duo” Spazio Visivo.

Già sperimentata con successo in altre mostre precedenti, la loro collaborazione intende far dialogare l’opera del primo, rivolta alla spazialità come nucleo-origine e luogo-destinazione della rappresentazione e dell’azione (visuale, teatrale, percettiva, motoria, relazionale, emozionale, psichica, sensoriale) con la ricerca musicale del secondo, dedicata all’analisi ed alla sperimentazione del suono, fondamento e risultato di un sistema di energie in perenne conflitto, tra affermazione e negazione, distensione e contrazione, distorsione ed equilibrio, perturbazione e quiete.

Ecco allora che “Linea (o Linie) crea direzioni differenti, contorni, confini, valichi insormontabili o attraversabili. Linea di separazione tra spazi interni ed esterni, demarcazione o unione. Il progetto è giocato su questa ambivalenza tra l’unico ed il molteplice, tra un microcosmo fatto di particolari tattili, più vicini, palpabili e concreti ed un macrocosmo lontano, astratto, distante.”

Sono queste le linee di senso del percorso espositivo che i due artisti, dotati di rara consapevolezza del proprio lavoro e dei mezzi utilizzati, hanno appositamente ideato e allestito per gli spazi della Galleria Mario Mazzoli, nata con l’intento di seguire e promuovere le ricerche e le relazioni tra arti visive e musicali contemporanee.

Fin dalla STANZA 0, luogo dell’inizio, dell’intro-duzione, emerge l’idea di relazione spaziale tra un interno ed un esterno, tra l’oggetto e lo spazio, la cosa e l’immagine-suono di essa: una serie di opere fotografiche ritraggono stanze cosparse di oggetti, dispersi come gli appunti di un racconto sfilacciato, stanze dense dei cascami della memoria, stanze inermi eppur gravide di energie solo assopite. Qui, il suono anticipa e pre-suppone i materiali sonori delle successive installazioni, ora in dettaglio, ora in estrema lontananza.

La STANZA 1, detta dei TEATRINI, è contenitore di contenitori, di scatole-oggetti che racchiudono visioni di architetture, di spazi e luoghi ritrovati nel contesto urbano della città: celle terrose dove stendersi su giacigli pietrificati, accompagnati dal risuonare di gocciolii e crepitii; estensioni sonore di cerchi d’acqua si diffondono in una stanza solitaria scavata nelle fronde d’un bosco. Anche laddove paiono suggerire luoghi aperti, i teatrini trasmettono l’idea di uno spazio chiuso, guscio-ventre-caverna dove proteggere il proprio intimo sentire, la propria interiorità, dove tornare a sé, in un labirinto di kafkiana memoria dove l’identità si costruisce attraverso una continua tensione tra  alterazione e riconoscimento. Così è anche per i materiali sonori, caratterizzati da morfologie molto contrastanti, di cui tuttavia ancora possiamo intuire l’origine, composti da suoni di matrice concreta e di origine strumentale, suoni d’ambiente di Berlino, suoni tratti da materiali “storici”. Emessi da sorgenti autonome nascoste all’interno di ciascun teatrino, creano un’unica installazione multicanale.

Disposti a esagono, i teatrini formano uno spazio centrale interno, dove il fruitore è circondato da essi e può percepirli nella loro totalità, ed uno spazio esterno, lungo il quale camminare, sostare, proseguire o tornare indietro: una planimetria labirintica, per  la contemplazione e per l’azione. A noi la possibilità di fluttuare e disperderci tra associazioni mentali, ricordi individuali, sensazioni rimembrate, volontà astraenti.

Nella STANZA 2 la superficie rettangolare mostra, nelle due pareti in lunghezza, un complesso dialogo sonoro e visivo: da un lato, sulla parete di destra, un centinaio di oggetti-contenitori di varie dimensioni, realizzati con materiali poveri (carta, terra, legno, stampe, polveri, croste e frammenti di altre cose), formano un pattern tridimensionale e composito dal quale derivano particolari elementi sonori estrapolati da un processo di frammentazione e moltiplicazione dei materiali della stanza precedente. Ciascun elemento è  ICONA – così s'intitola anche la stanza – ovvero pura astrazione e sensibilità plastica delle cose e degli spazi, come Malevich indicava nella sua ricerca tesa tra immagine e architettura, astrazione visuale e ipotesi urbanistica.

Sulla parete opposta, di sinistra, si staglia un unico elemento, uno specchio-quadro sonoro isolato dove il fruitore può ri-trovarsi e ri-(o dis-)conoscersi: sulla superficie dello specchio, un foro immette a sua volta in un corridoio interno, infinito, che riprende la stessa stanza fatta di scatole, in un gioco di riflessi e ripetizioni.

Le reciproche relazioni sensoriali stabilite tra le due pareti e tra di esse e il fruitore (che diventa, suggerisce Cavinato, a sua volta contenitore al massimo grado, contenitore in atto dei contenitori in potenza esposti), sono ulteriormente moltiplicate dal complesso lavoro musicale. Qui, Trevisi trasforma in quadri sonori alcune delle cento scatole disperse in mezzo alle altre, mute: “(…) all’interno della parete ho cercato di creare una ‘spazializzazione frontale’ (…) individuando quattro linee che tagliano lo spazio acustico da sinistra a destra (…) il centro dell’installazione è lasciato in silenzio (…) ogni quadro si caratterizza per un proprio valore all’interno di un gradiente di astrazione”. Mentre, sulla parete opposta, Trevisi dispone altre due mini casse dalle quali si diffondono materiali sonori molto più riconoscibili e dettagliati, percepibili solo a distanza ravvicinata – cioè nel momento in cui si guarda attraverso il foro dello specchio – suggerendo così a livello sonoro l’archetipo uno-molteplice già offerto dall’installazione di Cavinato.

Immagini come phantasmata, ovvero apparizioni di cose e oggetti, ricordati e ricostruiti in carta in scala 1:1, ritornano nella terza STANZA, appunto chiamata PHANTASMA, il cui pavimento, nero e lucido, ce li restituisce riflettendoli “…minimali, bianchi, congelati, immobili, statici, come fossero estrapolati dalla mente”, spiega Cavinato. Disposti lungo una linea bianca, questi oggetti si specchiano duplicandosi, creando una composizione astratta dove si rivelano nella loro non-finitezza, o meglio nella loro possibilità di diventare altro da sé: dalla sedia che perde la sua funzione, mantenendo la forma, al poliedro irregolare, pietra alchemica memore delle malinconiche astrazioni di Dürer. Forme assolute che si riproducono all’infinito, mentre il fruitore, entrato nella stanza, non rispecchiandosi simbolicamente si rinnega e annienta, alla ricerca di un’identità che lo scuote e lo nasconde tra le cose. Se io traccio una linea, paiono suggerire Cavinato e Trevisi, è perché intendo separare, porre un confine, tra due o più parti. E al contempo, dividendole, ammetto che queste erano, possono tornare ad essere, unite. Così accade in PHANTASMA, dove la linea traccia il confine e al contempo lo discioglie, rendendolo vano e flessibile, come suggerisce anche l’installazione sonora: “(…) il suono come l’ambiente visivo è asettico e cristallizzato, lentamente variabile, con un grado di energia molto basso, che si stacca dal caos della stanza precedente (…) in una bruma sonora lentamente cangiante”, chiarisce Trevisi.

L’EVOLUZIONE della STANZA 4, anziché ricomporre il percorso, lo frammenta ulteriormente nello spazio, costringendo il fruitore ad una ulteriore disarticolazione percettiva e cognitiva, visuale e sensoriale. I movimenti del suono, diffusi da casse acustiche nascoste in alcuni dei prismi che invadono lo spazio, parallelepipedi sospesi in una doppia elica attorcigliata, pervadono l’ambiente come un pulviscolo sonoro.

Polverizzazione dell’opera, polverizzazione del suono.

Ultima linea di un percorso dentro e fuori la propria identità – il proprio mondo. 

Alla ricerca di un nuovo inizio, di un altro io, per altri spazi visivi e sonori:

 

Giungo al centro,

alla mia chiave,

all'algebra,

al mio specchio.

Presto saprò chi sono.

 

Jorge Luis Borges, da Elogio dell'ombra, 1969

 

 

Ilaria Bignotti

 

 

 

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